La maestosa e pur scarna facciata della chiesa ti incombe alle spalle ed è come se secoli di storia facessero sentire su di te tutto il loro peso. Un peso enorme che tenti invano di scrollarti di dosso. Ma non puoi, perché tu, uomo di oggi, vivi in essa e ne fai parte. Che tu voglia o no. E ti chiedi se questo piccolo e antico lembo di Procida, il borgo di Terra Murata con tutti i suoi gioielli, non abbia una storia forse eccessiva rispetto all’esiguità del territorio. Ma tant’è e non ci puoi fare niente! Ed è come se fantasmi, incorporei e pur presenti, uscissero dalla chiesa e ti venissero dietro: lunghi cortei di preti processionanti, con ceri accesi nelle mani. E senti i loro “Te Deum” giubilanti o i loro terrificanti “Dies irae”.E li vedi passare tra una moltitudine di popolo ora osannante ora atterrita e contrita a seconda del canto. Questa chiesa ha sotto le sue fondamenta , quasi nel suo grembo come una donna gravida, altre due chiese: la cappella di S. Michele, sede della Congrega dei Turchini dal 1588 fino al 1892, anno in cui si trasferì in S. Tommaso d’Aquino per esigenze di spazio e per diverbi con il curato di allora, e, sotto di questa, la cappella una volta sede della Congrega dei Rossi, la cosiddetta “Segreta” fondata a metà ‘700 da S. Alfonso. La prima è una stupenda struttura completamente affrescata dalla volta alle pareti. Al centro di essa, e lungo i lati, delle bacheche orizzontali mettono in mostra antichi e mastodontici “salteri” completamente scritti e dipinti a mano da pazienti amanuensi. Hai modo di ammirare anche alcuni dei preziosissimi ed antichissimi arredi sacri patrimonio di questa chiesa, quali pianete, piviali, stole, manipoli, un tempo spesso corredo personale dei preti che frequentavano l’abbazia. Lungo la sua parete di sinistra si aprono delle finestre a picco sul mare, affacciarsi dalle quali da un senso di vertigine per il vuoto sottostante. Nelle mareggiate invernali per lo scirocco spruzzi di acqua salata ne investono i vetri. Nei corridoi e negli spazi adiacenti questa cappella armadi larghi quanto le pareti ed alti fino al soffitto custodiscono migliaia di libri antichi: è la biblioteca dell’Abbazia, consistente in ottomila volumi accumulatisi nei secoli. Vi sono contenuti testi originali del ‘500, del’600 e così via fino a periodi più recenti. Non vi sono testi antecedenti tale epoca perché i Benedettini, quando lasciarono Procida e l’Abbazia di S. Michele, portarono con loro tutti i libri allora esistenti. Altri armadi contengono centinaia di antichi spartiti musicali molti dei quali in tetragramma. Sullo stesso piano fa mostra di sé uno splendido presepe del ‘700 napoletano con pastori originali, parte dei quali sono stati rubati un paio di anni fa, poi recuperati ed adesso bisognosi di un restauro. Scendi una rampa di scale ed entri nella cosiddetta “Segreta”, una cappella che è un vero e proprio gioiello di arredamento barocco: le pareti sono rivestite di legno con dorature cui lo scorrere del tempo ha fatto assumere un aspetto morbido e quasi opaco, lungo di esse le panche dove si sedevano i confratelli e davanti delle balaustre di legno dorato su cui per ogni posto si nota un teschio ed una candela infilata in un foro. In fondo, e più in alto rispetto al resto, lo scanno del priore anch’esso in legno ed oro. In questo locale, nelle ore antelucane, alla luce fioca delle candele e ricoperti ciascuno da un saio che impediva di riconoscersi l’un l’altro, si riunivano i confratelli dei Rossi per le meditazioni sulla morte e per le confessioni pubbliche. Anche qui sulla parete esterna, quasi come se fosse nel corpo della montagna, si aprono due finestre che fanno entrare la luce e l’aria salmastra del mare. Questa Congrega di spirito fu fondata da S. Alfonso a metà del ‘700 affinché i Procidani ritrovassero “la febbre di Dio”. Procida in quel tempo era un porto importante del Mediterraneo cui approdavano barche provenienti da tutti i paesi con un flusso abbondante ed ininterrotto di uomini di mare ed era sede di traffici di ogni genere. La marina di “Sènt’Cò” era cosparsa di bettole e di case in cui “pie” donne anelavano a consolare questi uomini abbrutiti dalla navigazione e dalla lontananza dalle famiglie. Il buon S. Alfonso, nel vedere queste cose, rimase molto scosso e decise di fondare la congrega, la cosiddetta “Segreta” per l’appunto. Le intenzioni del Santo nel tempo dovettero essere travisate perché in seguito a Procida invalse l’uso di definire i membri di questa congrega “segretisti…nemici di Cristo”. Scendi un’altra rampa di scale e ti trovi in un vasto ambiente cosparso di ossa. Un vero e proprio ossario nella cui volta è ancora visibile, anche se murata, un’apertura da cui nei secoli scorsi venivano calati i cadaveri che, appesi ad un gancio, erano messi a “scolare”. Ormai sei già da un pezzo fuori della chiesa e ti appresti a scendere verso la parte bassa di Procida. Una coppia di turisti si aggira spaesata nei paraggi e ti si avvicina chiedendo notizie sulla zona e sulla chiesa. Sono Piemontesi. E tu spieghi loro come questa sia una basilica ex- recettizia, che questo significa che nei secoli scorsi era riccamente fornita di rendite, di beni immobili e che aveva il diritto di imporre tributi sul pescato e sui raccolti. E che tutti questi beni costituivano la “commenda” di cui godeva “l’abate commendatario”, in genere un cardinale con sede a Roma che non potendo risiedere a Procida delegava, dietro la corresponsione di una certa cifra, un “vicario curato” per il culto, il mantenimento della chiesa e la beneficenza. Che i soldi per questa bisogna comunque erano pochi e riguardavano solo il curato scatenando le ire delle altre decine e decine di preti procidani che spesso facevano letteralmente la fame e pertanto difendevano lo “jus mortuorum”, volgarmente detto “diritto di fossa e campana”, secondo cui bisognava pagare un tributo alla chiesa per seppellire il morto altrimenti il cadavere rimaneva in casa . Che nel “600 il cardinale Bellarmino,non sopportando più questa situazione, fece in modo che la chiesa di Procida passasse alla Curia di Napoli per cui l’arcivescovo di questa città divenne”abate commendatario” di Procida, titolo che conserva ancora oggi. Che questo stato di cose durò fino all’arrivo dei Piemontesi nel 1861. E dici queste cose con un sorrisetto ironico. “Perché questo tono?” Ti chiedono i due ospiti. “Perché – rispondi -i conquistatori sabaudi incamerarono nel nuovo Stato unitario, tra le altre cose, anche questa basilica che da “recettizia” divenne “ex-recettizia”. E che questi sono stati gli effetti della conquista sabauda”. “Già!- interviene la donna della coppia- “E’ vero anche, però, che “Graecia capta victorem coepit” ( la Grecia conquistata conquistò il vincitore)…” “Sarà cosi- pensi tu- chissà!” E stendi loro la mano per salutarli e ti avvii per … la “discesa dal tempio”.

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caro Giacomo,
leggendo la magnifica descrizione della Chiesa della Terra Murata e dei suoi tesori nascosti,mi sono impersonato in quel “tu”, a cui ti rivolgi e sono stato assalito da un profondo senso di scoramento. Per l’ignoranza, l’incultura, l’ignavia di tutti coloro che sono preposti alla salvaguardia degli immensi tesori della nostra Storia, e irresponsabilmente se ne sono lavati le mani. Nemmeno il “te Deum” o il “Dies irae” restituirebbe loro la “febbre di Dio”. E noi, poveri mortali senza più diritto né di fossa né di campana a chi Santo ci potremmo rivolgere? Persino Sant’Alfonso, credo, si lamenterebbe della mancanza della “commenda”. Direbbe che senza denari non si cantano Messe e ci lascerebbe di nuovo consolare dalle “pie donne”. Et omnia munda mundis!.