Perchè la riforma della portualità italiana non convince. Anzi….

di Nicola Silenti da Destra.it

Poche idee ma confuse. E’ questo che emerge dalle varie discussioni in campo sulla riorganizzazione del sistema portuale italiano che dovrebbe portare a una riforma della legge numero 84 del 28 gennaio 1994, attualmente in vigore, con l’introduzione della ”privatizzazione dei porti”. Una riforma, quella dei porti, che arriverebbe proprio in concomitanza con il varo della legge sull’autonomia differenziata che assegna la materia dei porti alla competenza esclusiva delle regioni.

L’impianto della legge 84,stravolto dalla cosiddetta legge Delrio (che ha di fatto accorpato i porti amministrati dalle Autorità Portuali), aveva individuato in effetti un nuovo soggetto giuridico – proprio le Autorità Portuali –quali enti di diritto pubblico non economico, mandando in soffitta i Consorzi portuali, enti pubblici economici e quindi veri e propri enti di gestione, privatizzando l’amministrazione dei porti e incentivando gli investimenti delle aziende private e l’innovazione nelle banchine dominate dai camalli, anche se sotto il controllo dell’ufficio del Lavoro portuale del corpo delle Capitanerie di porto.

Durante la cosiddetta “primavera dei porti”, i governi del tempo affidarono la governance delle Autorità portuali a veri manager del settore marittimo e portuale e non a personaggi di riferimento della politica nominati dai governi successivi che non solo non avevano i requisiti prescritti dalla legge, ma pensavano di poter gestire l’ente affidatogli come un normale posto di sottogoverno tenendo in poco conto la gestione delle imprese nei settori dei trasporti, della logistica, dello shipping e della portualità e per turare le falle c’era sempre un Commissario straordinario nominato per raddrizzare la nave.

Con l’entrata in vigore della legge Delrio la situazione gestionale dei porti si è ulteriormente complicata, non solo a causa della latente competizione dei porti incorporati nelle nuove A. d S. P. (vedi Genova con Savona), ma anche per la trasformazione del Ministero delle infrastrutture e dei Trasporti, perché dei vecchi Direttori Generali del Ministero della Marina Mercantile non c’era più nessuno, in quanto sostituiti da manager provenienti dal Ministero dei Lavori Pubblici, che non conoscevano il settore se non dal punto di vista della progettazione e della direzione dei lavori delle infrastrutture. Si è così prodotto un vulnus che ha inciso pesantemente sulla funzione di controllo e di vigilanza dei porti al quale si è aggiunta l’invadenza del Ministero dell’economia, che ha messo in un cono d’ombra lo stesso M. I. T. riducendone ancora di più l’autonomia amministrativa aggravata dalle tante Authorities dei Trasporti, Agcom e altri enti più o meno coinvolti che hanno reso veramente impossibile gestire le Autorità di Sistema Portuale. Eppure sarebbe bastato fare un primo tagliando alle ex Autorità Portuali, intervenendo con delle piccole modifiche legislative riguardanti l’articolo 18 e semplificare la legislazione in materia di dragaggi, cooperando con il Ministero dell’ambiente.

Chi conosce davvero il settore e ne vuole un vero rilancio sa bene che è vitale per l’Italia che le banchine rimangano pubbliche – anche per una questione di sicurezza nazionale – così come la loro governance, affidandola però a dei veri manager titolati e competenti. Manager che devono essere messi in grado, come afferma l’avvocato e giornalista Roberto Nanfitò, ex Segretario generale dell’Autorità portuale di Catania «di gestire in maniera più semplificata i porti, liberandoli dai mille lacciuoli burocratici che impediscono di poter competere in un settore che non è solo portuale e marittimo, ma logistico, oltre che economico» Per questo occorre «un nuovo soggetto giuridico cui affidare il settore della portualità, con l’ingresso dei privati come soci di minoranza, che siano in grado di immettere nel circuito capitali privati importanti, ma soprattutto know how». Tanto più che «il vecchio Comitato portuale, organo strategico delle ex Autorità portuali, era formato da 21 componenti e poteva apparire pletorico, ma di certo rappresentava il cluster marittimo portuale mentre il Comitato di gestione attuale è affidato agli enti locali, e anche il Comandante del porto svolge, rispetto a una volta, una funzione molto più circoscritta».

Anche l’organismo di partenariato della risorsa mare, introdotto dalla nuova norma, appare meramente consultivo senza capacità di incidere sulle varie urgenze portuali. A nostro modesto parere il vero vulnus è la mancanza di una vera cultura del mare e la soluzione appare ben individuata dal recente Piano del Mare (di cui una delle sedici direttrici introduce proprio il ruolo della portualità italiana nel Mediterraneo) e dai lavori del CIPOM cui spetta dettare i tempi dei vari capisaldi cui si fonda il citato Piano del Mare, strumento cardine di una economia del mare che deve tornare ad essere il baricentro delle politiche di sviluppo nazionale in un momento storico che vede il Mediterraneo nuovamente assurto ai suoi fasti di “centro del mondo”.Per questo l’Italia deve ricominciare a fare sistema, per l’ormai ineludibile ragione che urge, come non mai, dare ai nostri porti competitività rispetto alla concorrenza agguerrita nel Mare Nostrum tenendo conto che dai nostri porti passa il 56 per cento delle merci importate e il 44 per cento di quelle esportate.

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