Chi non ha visto “Mare Fuori”, la fortunata serie televisiva, tutta incentrata nel carcere minorile IPM di Napoli? Il carcere è a picco sul mare e tutti i ragazzi che si trovano all’interno dell’IPM sanno che c’è il mare fuori .Ma il mare è anche dentro, dentro ognuno di loro. E ognuno di quei ragazzi ha la possibilità di vederlo quel mare, di navigarci, di crescere, di cambiare la propria vita in qualcosa di meglio di quella a cui sono destinati.
Quella di “Mare Fuori”, è comunque una realtà criminale, complessa, fatta di ragazzi appartenenti alla malavita, educati al male dalle stesse famiglie cui appartengono. Ma ci sono pure quelli che nel carcere ci sono capitati per caso, come Filippo, subito apostrofato Chiattillo, che si trova proiettato in un mondo che non si era mai immaginato, come Carmine Di Salvo che , seppur appartenete a una famiglia di camorristi, non vuole avere niente a che fare con quella vita. E poi c’è Rosa Ricci, criminale convinta che nell’amore cerca un suo riscatto, ma senza riuscirci.
Tutti i ragazzi dell’IPM vengono posti di fronte a una scelta: continuare a seguire i codici della malavita o adattarsi a un codice morale corretto.
C’è un’alternativa alla criminalità? C’è un modo di uscirne? I ragazzi dell’IPM di Napoli come di tutti le carceri i minorili d’Italia possono sperare in un futuro migliore?
In molte carceri minorili d’Italia si sta cercando di organizzare un sistema di riabilitazione dei detenuti facendoli lavorare impiegandoli direttamente o attraverso cooperative in imprese private. Una forza di lavoro notevole dentro e fuori del carcere.
L’idea è quella di creare valore dentro il carcere e dare un’opportunità alle persone che vogliono riscattarsi.
Si fanno, naturalmente, prima dei corsi di formazione che li preparano a un lavoro per cui ci sono già delle richieste. Poi è chiaro che non tutti i detenuti sono uguali. Ci sono quelli che si scoprono subito poco adatti a lavorare e quelli che scoprono di avere grandi professionalità. Poi ci sono quelli in cui la criminalità è talmente radicata da non ammettere alternative.
Ci sono lavori che richiedono lunghi periodi di formazione per cui devono essere coinvolti formatori esterni che si devono uniformare un ambiente a un mondo che conoscono poco.
Naturalmente non è semplice. Sono nate cooperative che gestiscono complessi progetti per far lavorare i detenuti in svariati campi di attività. Servizi alle imprese, confezionamento, riparazioni.
È giusto dare lavoro ai piccoli detenuti? O è pericoloso? I risultati ottenuti finora danno ragione a che caldeggia questa scelta. I detenuti si sono mostrati sempre molto motivati e hanno sempre ottenuto sul lavoro risultati superiori alla media. Le aziende hanno ottenuto un miglioramento in qualità . E la maggior parte dei detenuti che hanno partecipato a questi progetti di lavoro, una volta usciti difficilmente sono tornati in carcere.
Quello che bisogna incrementare, a mio avviso è il lavoro dei detenuti all’esterno del carcere. È proprio il lavoro esterno che offre esperienze che aumentano l’autonomia dei detenuti, facilita i processi di integrazione, una volta che saranno usciti dal carcere.
I detenuti che lavorano sono circa un terzo, quasi tutti interni all’amministrazione penitenziaria, Quelli che riescono ad ottenere un lavoro all’esterno sono ancora pochi e già al ministero della Giustizia stanno cercando un sistema per aumentarne il numero.
Far lavorare i detenuti da molti viene percepito come un privilegio forse non meritato. In una società civile, invece, non deve prevalere il pregiudizio. Non dobbiamo stigmatizzare queste persone ritenendole inadatte a vivere in un contesto civile ma dobbiamo fornire loro un’occasione di riscatto, e di reintegrazione. Per fare questo c’è bisogno di una legislazione ad hoc e di di uno snellimento della normativa.
L’ozio forzato dei detenuti non fa bene a nessuno, mentre il lavoro può sviluppare occasioni di conoscenza e di riscatto che concorrono a fare in modo che quelli che sono usciti dal carcere non ci ritornino.
E se servono nuove leggi, nuove discussioni, se occorre siglare nuovi protocolli, se bisogna coinvolgere altri soggetti, se bisogna coinvolgere il più alto numero di imprese possibile per creare un mercato del lavoro dei detenuti, allora facciamolo.
Ci vuole una banca dati unica che dia punti di accesso sia ai detenuti che alle imprese, un mondo dove domanda e offerta si incontrano velocemente, dove si incrociano le aspirazioni dei detenuti e le richieste delle imprese.
E naturalmente ci vogliono incentivi per le imprese che accettano di utilizzare questo strumento.
Le testimonianze a favore di questa tesi sono autorevoli, come quella di Papa Franceso (il carcere possa diventare un luogo di rinascita morale e materiale, in cui la dignità di donne e uomini non è messa in isolamento, ma promossa attraverso il rispetto reciproco e la cura di talenti e capacità”, o quella del ministro della Giustizia, Carlo Nordio (L’obiettivo è avere in ogni carcere e in ogni luogo di detenzione alternativa la possibilità di fare apprendere alle persone detenute un lavoro, in modo tale che possano riuscire a trovarlo una volta liberate).
Come ha detto il ministro “dobbiamo costruire un ponte tra carcere e imprese, orientato al dopo, così da permettere a una persona quando esce dal carcere di avere già una sua sistemazione, che la renda economicamente autonoma e anche socialmente più presentabile. Da parte del Governo c’è una disponibilità assoluta, ma è necessario creare questo collegamento con le imprese. E quando parlo di imprese intendo in senso lato, non solo economiche ma anche culturali, sociali e religiose”.
Naturalmente non tutti i detenuti sono recuperabili e non tutti meritano di essere recuperati. Questo è un dogma falso.
Ci sono reati che non si possono perdonare. Pestaggi di anziani solo per svago, perché ci si annoia, sesso diventato solo stupro, delitti che varcano ogni limite di efferatezza e di brutalità. La violenza diventata moda, linguaggio, abitudine, non può essere recuperata in alcun modo.