Socrate, nel presentarsi davanti ai giudici, così parla: “gli uomini devono occuparsi non della massima accumulazione dei beni ma di sé stessi e, principalmente, di coltivare la propria anima con l’ausilio della ragione.”
Epicuro considera la filosofia una permanente esercitazione a tale attività. Infatti, nell’epistole a Meniceo dice: “né il giovane rinunci a filosofare, ne li vecchio spenga l’ardore di ricercare perché non si è abbastanza giovani né troppo vecchi per vigilare sulla salute dell’anima.”
Seneca rappresenta l’uomo che cura il corpo e l’anima come un costruttore di un luogo felice in cui il proprio spirito non è più agitato e il corpo supera il dolore.
Epitteto configura l’essere umano con la delega divina all’esercitare tale cura con la possibilità di esplicare un libero utilizzo, avendo avuto in dote la ragione, intesa come facoltà originale di armonizzare cuore e mente.
Apuleio è sconcertato dalla riluttanza dei suoi contemporanei verso sé stessi, spinti più verso la dimensione istintuale che verso quella razionale.
Una massima di Zenone è un accorato appello ai suoi concittadini ad intraprendere la strada della propria salvezza predisponendo il percorso essenziale verso un intenso afflato interiore.
Come si sperimenta da tali testimonianze, la filosofia ha sempre considerato la cura di sé stessi come elemento fondante della propria ragione di essere, sia come singolo che come soggetto sociale. D’altra parte tale linea guida non è rivolta, esclusivamente, a coloro i quali seguono una disciplina degli studi pertinenti ma a tutti, all’intera umanità. Perché non è un rintanarsi dentro un recinto ma, al contrario, costituisce un processo educativo verso un’ampia apertura alla socialità, alla consapevolezza che una moltitudine di sé stessi di formare un noi, un insieme, una comunità, una vasta gamma di Polis che si riappropriano, dolcemente, che spinge e al bene comune. In altri termini, la filosofia può assumere la funzione di ambulatorio dell’anima da dove non si deve uscire dopo aver gioito ma dopo aver sofferto attraverso l’esperienza medicare le proprie ferite, fermare il flusso della corrente dei propri umori e planare nella tranquillità esistenziale. Per raggiungere ciò, urge che la ragione esca dal soporifero torpore in cui è caduta e riacquisti in ciascuno di noi la sua energia vitale. Per noi è la ricetta più idonea per uscire dalla morta gora in cui ci siamo cacciati e attraversare il buio oltre la siepe.
Forse, un’altra traccia da seguire ce la offre Epicuro con queste parole: “Senza esagerare con la filosofia, possiamo trovare un valore aggiunto nel buon senso dentro un rapporto amicale che ci fa gustare i beni nella maniera più gradevole possibile e ci rende fortificati ad affrontare il male con tutta la pazienza di cui siamo capaci.”
E noi aggiungiamo che tale predisposizione spirituale di affrontare gli interrogativi più pregnanti della nostra vita come “Che cosa è la realtà?”, “Come possiamo mostrare la esistenza di Dio?”, “Esiste la felicità?”, “Chi è l’altro?”, “Che cosa è la legge?”, ” Che cosa è la giustizia? “, “Che cosa è l’immaginazione?”, “Che cosa sono la libertà, la responsabilità, i sentimenti, il male, la morte, l’avidità, il desiderio, i valori, l’amore e l’amicizia?” non con la presunzione delle certezze ma con l’umiltà di un cammino permanente nel quale giorno dopo giorno si svela qualcosa che rompe le reti e comprende che qualsiasi tappa racchiude in sé l’imprevisto.
E qui, inoltre, c’è bisogno di sentirsi preparati all’incontro con la paura, il coraggio, il dolore accompagnato da una robusta e solita credenza nella speranza.