Procida: Che isola stiamo lasciando ai nostri figli e nipoti?

di Michele Romano
Lo scempio e il dileggio che pervade sulla nostra società e sul modus vivendi di istituzioni e enti che costituiscono i cardini educativi su cui costruire il vivere sia della persona come singolo che come comunità, si può percepire dagli atteggiamenti che alcuni di essi assumono davanti ad eventi in cui devono far sentire la loro presenza qualificante. In tal senso, iniziamo con la politica che intesa ad inseguire le picaresche imprese del Presidente del Consiglio, degne delle scene del Satyricon dello scrittore latino Petronio in piena decadenza dell’Impero Romano, si presenta davanti alle drammatiche problematiche della cittadinanza con sprezzante noncuranza o con pilatesca indecisione. A tal proposito è sufficiente osservare, restando nella prospettiva procidana, ciò che sta accadendo intorno alla terribile vicenda dei nostri carissimi figli nel mare della Somalia, aggravata dal comportamento sordido e disumano di un armatore, degno erede dei peggiori negrieri dei secoli scorsi. Continuiamo con la scuola, dove sempre seguendo l’osservatorio del nostro territorio, si sperimenta attraverso l’illegale obbrobrio e prevaricazione dell’ultima assegnazione degli incarichi di utilizzo nella scuola primaria (oramai, credo, materiale per la magistratura) sintomo di un ben strutturato degrado del funzionamento della Pubblica Amministrazione, come questa Entità ha smarrito del tutto il suo ruolo fondamentale e decisivo per la crescita e la formazione della prossima generazione. E qui diventa disarmante anche l’atteggiamento della Conferenza Episcopale Italiana, tranne significative eccezioni, che nell’attuale momento di terribile disfacimento sociale, economico e soprattutto di comportamenti che violano ampiamente il decoro dell’istituzione tanto da far correre lo spaventoso rischio di una assuefazione ad ogni mortificante scandalo di turno, smette l’abito dell’alta e vigile funzione morale che le compete per indossare quello, per mero opportunismo politico di simoniaca memoria, del silente osservatore in attesa di ciò che accade al costo di non avere più niente da dire e da offrire agli smarrimenti, alle attese e alle speranze in primo luogo dei credenti e poi degli altri.
Per concludere, in questa atmosfera, dove si espande sempre di più il senso di impotenza e il continuo indebolimento della fibra della comunità che diventa sempre più tenace tale da rendere la propria capacità di reazione molto flessibile, diventano sprone le parole di Andrea Camilleri: “Che Paese stiamo lasciando ai nostri figli e nipoti? L’abito di lino, mettiamo pezze, toppe, ma è il vestito che va cambiato.”
Queste parole non sono altro che l’eterno urlo della speranza che continua ad offrire un senso fondante al vivere dell’umanità.

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